Domani 18
Gennaio tolgono l’acqua.
È stato l’ultimo pensiero prima di dormire, che al
mio risveglio si è concretizzato sulla mia pelle: potevo avvertire
distintamente la punta del naso gelata.
La prima riflessione a farsi largo tra le nebbie
del sonno, è stata che mi ero addormentato senza poi riempire quei contenitori
del prezioso liquido.
Chi l’acqua non ce l’ha mai avuta, non può capire
le implicazioni dei miei tormenti, così barbaramente moderni.
Balzo a sedere trascinando per terra i coltroni
ancora caldi; il piede scatta in aria al contatto gelido con la mattonella.
Calzini pesanti, ciabatte di pelo, maglione abbracciato al collo a mo’ di
mantello e sono pronto ad affrontare la giornata.
Mica vero.
Prima che il pensiero di un caffè si componga,
viene scalzato dal fatto che per produrlo mi serve acqua.
E io non ne ho.
Nel tragitto lungo il corridoio verso la
zona giorno, rallentato dal freddo, incrocio il termostato: 12 gradi, mi dice. Vorrei
romperlo: non ho mai sopportato il freddo, questo freddo; incapace di
difendermi se non con qualche straccio sintetico.
“Non accendere la caldaia, che senza
acqua si rompe”... maledetti!
È lunedì, lavoro di pomeriggio;
probabilmente non sarò a casa per accogliere il delicato tsunami che mi aspetterà
dietro ogni rubinetto, pronto a sgorgare con un semplice gesto.
Oh! forse nelle tubature è rimasto qualcosa; un
mezzo bicchiere, tanto per bagnarsi la bocca dopo aver bevuto un caffè.
E dai: il caffè... lo prenderò al bar!
Dovrei uscire prima del tempo, salire in auto,
tornare in questo inferno ghiacciato e dovermici abituare di nuovo.
No, mi scaldo il latte.
Nella credenza c’è un cartoccio aperto.
Scemo, ce
l’ho lasciato io. Non sento cattivi odori, forse si è salvato.
Annuso il contenuto ma l’olfatto sembra non
essere più nel novero dei miei cinque sensi; sfrego il naso in uno spigolo di
tetrapak e balzo all’indietro: sono talmente gelato che mi è sembrato di
ricevere un colpo di scherma.
Piego il cartoccio, il contenuto si riversa,
dividendosi in maniera omogenea tra le mattonelle e il mio piede.
Sembra me lo abbiano ingessato.
Lavarmi.
L’embrione di un pensiero non si azzarda neppure
a farsi largo dall’incoscienza .
Mi sbatto a sedere per terra sfilando ciabatta e
calzino insieme.
E’ passato: ho il piede impastato di ricotta.
Annego una
bestemmia nel gozzo. Sarebbe troppo facile cedere alla disperazione, no, non
darò a nessuno, chiunque esso sia, la soddisfazione di burlarsi di me.
Dai
rubinetti di casa riesco a mettere insieme mezzo bicchiere, che verso
lentamente su un piccolo asciugamano; partendo dalla caviglia avvolgo la parte
inzuppata di caglio e struscio il panno fino all’estremità del piede.
Accettabile:
potrò vestirmi senza puzzare troppo.
Mi viene in
mente che devo ancora fare pipì.
Liquido.
Scaccio
dalla mente la barbara ipotesi, ridendo di me stesso e di quanto sono ridicolo.
Apro la
porta del bagno e scopro che il mio olfatto è tornato.
Stanotte ho
prodotto, ma non ho tirato lo sciacquone.
Lo guardo: contiene dieci litri....
Lo guardo: contiene dieci litri....